2000 Sui corpi sommersi
Andrea Emiliani
La capacità di espressione di Maurizio Pierfranceschi sembra aver esitato a lungo prima di decidere di farsi pittura, piuttosto che sostare brevemente sulla soglia della poesia "silente", fatta di parole. Il fatto è che questa specie di instancabile surplace, di gelido calore (immobile à grands pas, diceva una mia amica citando Valéry) è un ossimoro che Pierfranceschi ha coltivato a lungo, per discendere infine in una pittura non figurativa ma a modo suo narrativa. Magari proprio di quella afasia che tra astrazione e figuratività decide, come diceva perfettamente Maurizio Calvesi, "non come abbandonare o essere abbandonati, ma come abbandonarsi". Ut pictura poesis, in qualche modo, in molti modi rammemorazione entro la quale il sistema percettivo si ostina a seguire ultimi segni oppure ultime parole, senza mai smarrire dell'uno o degli altri la perfezione del possibile, probabile, "arresto estatico”. Ed è anche questa un'intuizione che regge fino all'esattezza critica più alta il vociferare, l'illuminazione estrema (dovuta una volta di più a Calvesi). C'è quasi una forma di dissoluzione che resiste, in stanze velate ma percepibili o addirittura vicine, e non si tratta d'una dissoluzione o dissolvimento di forze, d'una caduta ostile: quanto piuttosto di quella conclusione che da Platone a questa parte segue e colpisce tutti coloro che hanno guardato la bellezza in volto. Un nuovo modello neoplatonico? Può darsi, non c'è tra le mani di Pierfranceschi nessuna rinuncia alla volontà figurativa, così come – nel contempo - la percezione seguita a segnalare sensibilità, a volte perfino sensualità. La luce che scivola come acqua tra teli di plastica si illumina della stessa paradossale naturalezza che la cinematografia estrae da quei velami di scena per illudere di uno stagno o di una gora di luce colorata che non ha natura e neppure idea: apparenza, forse, d'una misura sensibile. Pierfranceschi non ha compagni e neppure segnala predecessori. Solamente Rothko del resto potrebbe essere chiamato a far respirare questa diffusa stesura traslucida: aut lux hic nata est, dicevano i mosaicisti ravennati, aut capta hic libera regnat: troppo regale, sconfinatamente dovizioso e ricco il senso di quella materia. Qui regna l'incerto destino d'una trasparenza che muore dietro il vetro d'una camera d'albergo, la sera. Stessa precarietà, eguale incerta sorte del giorno. Come è facile constatare, il giudizio -o meglio l'avventura comune alla quale ogni volta sembra invitare Pierfranceschi - è di quelli che esigono di trovare la loro equivalenza narrativa e di immagine per non slittare nell'indifferenziato ectoplasma dell'astrazione: non nutrita - comunque - da un'organizzata struttura mentale. Questo equilibrio che sottrae la pittura di Pierfranceschi all'uno come all'altro dei due poli, conoscibile e non conoscibile, o meglio ancora figurativo e non figurativo, è parte dell'avventura che il pittore propone a se stesso: e nel contempo a chi lo osserva. Il solo margine che Pierfranceschi concede ad un'idea consueta della pittura è quello dell'elaborazione materiale. Tesa, traslucida, misurata, questa tenda che scende davanti al nostro occhio nutre caratteri perfino tradizionali, tali da evocare anche le figure lessicali dei procedimenti classici dello stile: tono, valore, equilibrio, sintesi. E più tardi: armonia, misura, senso dello spazio: e qui è di dovere entrare in un'altra dimensione, alla quale prima o poi chi desidera portare la sua attenzione a Pierfranceschi deve accedere. Il senso dello spazio è appunto ciò che orienta l'espressione del nostro artista. Come ogni vero pittore, a cominciare da Vuillard e dal suo intimismo domestico, questo velame colorato che nelle ore assurge alla celebrazione della luce (Rothko) raccoglie anche la dimensione del tempo. E poiché quest'ultima è appunto la dimensione nella quale dilaga la scrittura e si spinge la poesia, proprio tra spazio e tempo ci sembra di dover sistemare, almeno al momento, ciò che Pierfranceschi con tanta determinazione e sempre sul filo del pericolo ci propone. Cecilia Ribaldi Astrazione e studio della natura simbolica della pittura sono gli elementi fondanti del discorso artistico di Maurizio Pierfranceschi. La sua pittura, sebbene astratta, sembra rivelare la preesistenza di elementi figurativi, rarefatti nella loro essenzialità e ridotti alla loro sostanza percettiva di superficie impregnata o riflettente di luce, come se un rapido avvicinamento ai nostri occhi ne impedisse la lettura complessiva, riducendoli a puri frammenti cromatici. La realtà esterna agisce come spunto iniziale a partire dal quale l'artista sviluppa un'operazione di trapasso nell'astrazione, fermandosi sulla soglia in cui la realtà perde la sua visibilità ma non la sua sostanza fisica, che dilaga sotto forma di superficie colorata. Nel corso di questo processo vengono messi in gioco tutti gli elementi del linguaggio della tradizione pittorica. La tela, che non è più piano di proiezione ma parte dell'azione artistica, viene. preparata con cura dall'artista che sceglie con precisione i tessuti sulla base di qualità fisiche e tattili della materia, che poi cuce e stende sul telaio, lasciando che questa assuma la sua modulazione naturale nello spazio. La pittura, stesa con una certa fluidità, non è mai superficiale né uniforme, ma il frutto di una ricerca faticosa che sovrappone stesure di colori diversi, volti a ottenere una superficie dinamica e "profonda" nella quale lo spazio nel quadro è dato da un "percepire oltre" di forme, che innesca nello spettatore un movimento di immersione nell'opera. Nasce così un'interiorità di spazio. A questo fine l'utilizzo della piega pittorica e reale, sulla quale la luce scivola, si incanala e riflette, diviene punto focale della ricerca dell'artista. I1 "ripiegamento della materia" (Deleuze) cattura la luce e determina attraverso la sua vibrazione il dinamismo dei quadri: alle pieghe delle acque si contrappongono le pieghe reali della tela, mutevoli alla percezione. Lo studio della luce che incontra e interagisce con la materia, definendola, è il discorso centrale della pittura di Pierfranceschi, che giunge a questa analisi dopo un lungo percorso nel quale la figurazione è andata pian piano dissolvendosi, e con essa qualsiasi forma di narrazione. Ciò che rimane al termine di questa operazione del levare sono i due elementi essenziali per la nostra percezione della realtà: la luce e la materia. Sono questi i termini di un discorso metafisico a cui tende il linguaggio di rarefazione della realtà, che però evita qualunque sperdimento estatico perché lo spazio del quadro è rigidamente strutturato da cornici dipinte o da elementi che ci costringono a ricordare che siamo di fronte al risultato di un lungo processo di scelta e di rielaborazione della tradizione pittorica, vissuta come accumulazione storica di idee da selezionare. Le sue opere fanno reagire la memoria visiva dello spettatore, richiamando i concetti di pitture ulteriori, certe luci e materie quattrocentesche, vibrazioni tardo barocche, cromatismi del novecento italiano. Queste suggestioni non riguardano solo la sostanza del quadro, ma risvegliano atmosfere di cui serbiamo una traccia nel nostro immaginario pittorico. I1 suo linguaggio produce quindi una paradossale mistica dell'azione pittorica, una mistica senza estasi: con la serietà del ruolo che l'artista svolge nella ricerca e nel rinnovamento di un linguaggio tradizionale, Pierfranceschi si erge come grande occhio non tanto sulla realtà quanto sulla poesia del reale, che contempla e rielabora con il gesto artistico, unendo in un abbraccio passione e razionalità, il tempo presente dello sguardo e l'azione muta della memoria. |
Carlo Alberto Bucci
“Verde e biacca fa verde più chiaro. Tutto il resto è letteratura". Così Anselmo Bucci conclude il suo testo di presentazione nel catalogo della personale allestita nel 1934 presso la galleria Pesaro di Milano. Sono parole attraverso le quali il pittore marchigiano – ripetendo la ricetta che da bambino gli aveva fornito un oscuro maestro veneto - rivendicava l'elementare, virtuosa semplicità del mestiere, contrapposta all'inutile esercizio speculativo messo in atto intorno all'opera dagli artisti stessi e della critica. Ma guardando ai quadri che segnano il percorso di Bucci - dipinti in cui il soggetto e la sua rappresentazione sono predominanti sullo specifico linguaggio della pittura – scopriamo che quella frase, in accordo con le posizioni più superficiali e conservatrici di Novecento, non vuole salvaguardare l'autonomia delle arti visive dalla dipendenza da altre forme di espressione artistica, ma serve solo a ribadire il preteso primato della tradizione italiana rispetto alla ricerca delle avanguardie, straniere e non. Le parole e la pittura di Bucci non hanno nulla a che vedere con il lavoro di Maurizio Pierfranceschi. Eppure, se riportate e riadattate allo stato dell'arte odierno, esse permettono di formulare una domanda attuale: ossia se è possibile porsi in una linea che sia alternativa alle proposte di un arte come discorso per immagini aventi per soggetto una storia più o meno privata – posizione formulata spesso sia nel contesto della pittura legata alla tradizione di questo medium, sia nell'ambito della pittura che invece dialoga con altri media, sia nel panorama di una ricerca che adotta esclusivamente "moderni" linguaggi quali fotografia, video e cinema - ma che fugga al tempo stesso dall'angolo cieco di un'orgogliosa e testarda autoreferenzialità, magari indirizzata all'estatica e nostalgica contemplazione di incantevoli squisitezze formali. A me pare che questa via sia possibile. Anzi, necessaria. E ritengo che l'opera di Pierfranceschi si cali nel presente seguendo proprio questa direzione: una pittura che non rappresenta né racconta; una pittura concentrata su sé ma non su se stessa ripiegata perché è capace di registrare ed incarnare nel suo farsi le pulsioni e le emozioni sue, e quelle del nostro tempo. Pittura pura e dura, insomma. I molti e impegnativi lavori eseguiti da Pierfranceschi dal 1998 e fino ai primi mesi di quest'anno – parzialmente documentati dalla personale allestita lo scorso dicembre alla Galleria comunale d'arte contemporanea di Ciampino e dal relativo catalogo introdotto da un testo di Maurizio Calvesi, al quale si rimanda per una lettura sul senso del recente lavoro del pittore romano nel contesto della sua produzione degli anni Novanta presentano alcuni elementi in comune, sebbene ogni dipinto mantenga una sostanziale autonomia e diversità; infatti Pierfranceschi, rifiutando la logica di un progetto precostituito da formalizzare secondo la prassi delle variazioni sul tema, si pone dinanzi alla singola tela pronto a seguire e interpretare le tracce e le leggi che l'opera, durante il cammino, di volta in volta propone e impone. Sebbene Pierfranceschi rivendichi la libertà di poter, a proprio piacimento, effettuare cambi di direzione, anche ravvicinati nel tempo, che gli offrono il lusso della varietà e una via di fuga rispetto al profilo di una omologante cifra stilistica personale, le sue ultime e variegate proposte - come anche i suoi quindici anni di lavoro presi nel loro complesso - hanno una profonda intonazione poetica comune, ma anche alcuni precisi ed evidenti elementi sintattici. Generalizzando, possiamo definire questi dipinti monocromi, seppure non propongano una tabula rasa omogenea; infatti, a ben vedere, ossia dopo un lungo e attento guardare, il tono cromatico prevalente è composto e infranto da differenti colori che affiorano dal fondo verso la superficie esterna, oppure ai limiti di essa improvvisamente deflagrano. Inoltre questi dipinti sono, quasi definitivamente, astratti (secondo un'accezione libera e larga del termine) poiché il rimando alla realtà oggettiva è talmente diluito nel tempo, e nello spazio profondo del colore, da aver perso riconoscibilità - se è vero che anche le opere di carattere figurativo realizzate da Pierfranceschi tra 1994 e 1996 testimoniano una ricerca pur sempre imperniata sul dialogo autonomo di luce e colore indissolubilmente fusi tra loro, nonostante la momentanea applicazione lungo la storia dei generi (natura morta, ritratto, paesaggio e pittura religiosa), l'attuale scomparsa di questi corpi dalle sue tele gli permette di non essere assimilato ai molti illustratori della pittura vecchia e "nuova”', ai cantastorie di sempre. I dipinti di Pierfranceschi sono, inoltre, pervasi da un sentimento profondo della natura (dichiarato sovente dai titoli delle opere, comunque sempre apposti a conclusione delle stesse), intesa non come nostalgia di uno stato edenico perduto ma come presenza sempre fondante del reale, sia nelle sue vibranti manifestazioni vegetali (come Su muschi inondati, del 1998) sia nella sua aspra essenzialità di materia (ad esempio Vulcani spenti e In nicchia ombrosa del 1999). Questi oli sono, "infine", sempre indissolubilmente legati alla materia su cui si depositano: pezzi unici di tele o tessuti che, talvolta tra loro cuciti oppure variamente trattati, diventano il corpo plastico dell'opera conclusa, dopo essere stati - per grana, tensione e forma - il punto di partenza della pittura. Anche nei casi in cui usa stoffe estranee alla tradizione, Pierfranceschi non è interessato al vissuto del supporto. I suoi velluti, tessuti e teli sono diversi dai teloni industriali sui quali, ad esempio, dipinge Julian Schnabel, poiché nella tensione del telaio acquistano un nuova funzione e dimenticano il passato. L'evidenza delle cuciture, a volte volutamente incomplete o sommarie, dimostra la vicinanza dei supporti di Pierfranceschi a quelli della tradizione informale italiana. Non esattamente le tensioni esasperate di Salvatore Scarpitta, o gli Achrome di Piero Manzoni, oppure certi effetti da "panneggio bagnato" presenti in alcuni dipinti di Gastone Novelli; piuttosto i sacchi di Burri, confronto tanto più preciso considerando che il maestro di Città di Castello è da sempre un punto di riferimento forte nel lavoro di Pierfranceschi. Tuttavia, l'ormai raggiunta distanza rispetto al precedente informale è scandita esemplarmente da un ricordo di Toti Scialoja, anch'egli peraltro attento alla fisicità plastica del supporto, che sia tela di canapa (Rue de la Tombe Issoire, 1961) o fatto di garze (Tre corde bianche). Scrive Scialoja nel Giornale di pittura (novembre 1956): "Straordinario slancio che mi dimostrò il pittore B. [Burri] nel novembre del 1954, per convincermi ad abbandonare la pittura ad olio, le tele preparate a gesso in modo tradizionale,ecc. ed usare materiali grezzi, polveri di drogheria, pennellaci, vinilico, colori a tempera lavabili, ecc. Sua insofferenza ossessiva per la pittura 'che specchia, che diventa invisibile' (per lui simbolo della tela finestra)" (Toti Scialoja. Opere 1955-1963, a cura di F. D'Amico, Galleria dello Scudo, Verona; Milano 1999, p. 160). A Pierfranceschi interessa così poco la storia pregressa della tela "trovata", che la impiega come nuovo supporto per l'olio. E mostra come anche un colore così ricco di lucentezza e di lucori possa trovare accordi e suggestioni dal confronto con una materia povera: che anzi aumenta il grado di vibrazione luminosa della pittura, come anche i punti di vista necessari per poter comprendere - naufragata l'ipotesi di uno sguardo onnicomprensivo - tutte le variazioni di lucido e opaco che animano la superficie. Nei suoi quadri avviene in qualche maniera ciò che accade alle ampie tele degli antichi maestri, segnate anche sulla superficie esterna dalla trama e dalle cuciture di giuntura tra le varie pezze (una su tutte, quella "cicatrice" che segna i visi delle due figure femminili poste sulla sinistra della Famiglia dell'infante don Luis di Goya alla Fondazione Magnani - Rocca di Parma). Con la differenza che i pittori del passato tentarono di occultare questi segni della tela, mentre in Pierfranceschi tali disegni diventano un patrimonio spaziale dell'opera, che la pittura ad olio interviene ad ampliare ed arricchire. Roveto ardente e In terra limosa sono i due dipinti più recenti di questa mostra. Entrambi sono stati eseguiti nei primi mesi del 2000 ma, nonostante abbiano in comune anche le misure, appaiono come entità completamente differenti. La diversità è stata determinata innanzitutto dalla differenza profonda dei due momenti di partenza. Una spessa tela di canapa nel primo caso. E, nel secondo, una preparazione bianca stesa a immobilizzare la tela di lino prima che essa venisse stirata; ma comunque, nonostante i voluti accidenti della texture, così candida e tirata da inibire quasi la mano. Quindi, arancio e rossi per seguire e rispettare le asperità epidemiche della superficie, taluni rigonfiamenti del manto, la linea plastica di quella piega originale che Pierfranceschi ha scelto di porre al centro di Roveto ardente, come orizzonte "basso" di un dipinto tutto estroflesso; talmente spavaldo da sfiorare la maleducazione; spudorato come una lamiera di carrozzeria, come una plastica nel paesaggio. Quindi, nel quadro In terra limosa, le apparizioni candide e polverose di bianchi e grigi che inondano di luce calcinosa le pieghe della tela, ossia le zone di luce e d'ombra che modulano in ogni punto la superficie, come se corpi e volumi premessero lievemente da dietro, da dentro. La vicinanza di due momenti così estremi - l'invadenza di un corpo immerso in una pittura densa che si immette in primo piano; e il velato trascorrere della luce lungo una lontana distesa di luci e ombre fatte di materia magra, che pure è corpo - dichiara la libertà e la potenza di un assunto categorico che quasi rifiuta di accondiscendere a più miti e mediani consigli. Del resto, un corpo dichiarato in tutta la sua evidenza fisica può coesistere e sposarsi, senza punti di separazione, con un corpo lontano evocato nel riflesso di un sogno: "Ebdòmero ricordava quelle cene a base di triglie putrefatte, che avvelenavano i bagnanti e li facevano torcere tutta la notte, in preda alle coliche, nelle camere d'albergo, sopra i letti le cui lenzuola eran riscaldate dalla canicola, in un’aria irrespirabile, ove l'odore del linoleum si mescolava a quello delle latrine poco pulite; dalla finestra aperta giungeva a intervalli regolari il rumore delle onde che crollavano sulla rena, laggiù, in qualche parte, nell'oscurità" (G. de Chirico, Ebdòmero, Milano 1999, p. 19). |