2005 Cose trasparenti
Ruggero Savinio
Roma, 28 gennaio 2005 Lo spazio si organizza in una lenta sequenza di piani, si richiude senza violenza, si solleva e ricade col ritmo della respirazione. Nessuna decisione, o taglio, nessuna costruzione. Nessuna architettura, anche se il pittore chiama architetture, o frammenti di architettura, i quadri che dispone nella stanza per la contemplazione. Una sequenza, un fregio, un nastro. Ricordo altre immagini - il Camminatore - mentre parliamo del nastro di pittura che si dipana, come un percorso che conduce altrove. Il pittore lo segue, non sosta nella plastica certezza dei luoghi estesi, cerca il Paese che Sohrawardi chiama Nâ-cojâ-Abâd, il paese del non dove. S'inoltra nella Terra di mezzo - quella della pittura, propriamente -dove lentamente i piani emergono, si mescolano e riaffondano nel suolo dell'origine. Stanno nello spazio fuori del luogo, dove i muri si scambiano con l'acqua, e lo spessore della terra porta la luce a un chiarore di porpora e di azzurro. Enzo Bilardello
Uno dei ricordi piu antichi della mia iniziazione alla critica risale ad una riproduzione di un dipinto di Sebastian Matta, allora all'apogeo della fama (si era intorno al 1965). Il titolo del dipinto era Dare una luce indolore (1955) e mi parve che si agglutinasse magnificamente all'immagine, ampliandone le possibilità. Cospiravano l'impianto disegnativo, colori liquidi che nell'accendersi e nell'addensarsi potenziavano la sensazione di una luce interna al dipinto. In aggiunta, il titolo, con la sua valenza di movimento ("dare") e d'intenzionalità ("indolore"), sembrava coinvolgere il riguardante nel farsi stesso dell'opera: noi stessi contribuivamo ad immettere luce purificata ed indenne dalla sensazione dolorosa. Oggi sarei più cauto verso tali pesanti interferenze letterarie sul dato visivo. Vi annetto un quid di furbizia che, forse, nell'intenzione dell'artefice non c'è, laddove il risvolto letterario aiuta solo a confezionare meglio il prodotto. Sul fronte opposto non mi era ignoto che una pletora d'artisti, soprattutto astratti, produceva opere "senza titolo" oppure le numerava progressivamente, al modo delle catalogazioni musicali. Con questa scelta il pittore chiariva senza ambagi di aver definitivamente spezzato il legame tra l'opera che, una volta completata, era del tutto autosufficiente, e la natura cui non era più obbligatorio ispirarsi, tanto meno illustrarla. Per gli antichi era impensabile un dipinto privo di titolo: sarebbe apparso incomprensibile. Il titolo ci garantisce che La battaglia di San Romano o La visitazione ricorda proprio quell'evento li e non dev'essere confuso con altre battaglie o con altri fatti religiosi e laici. Poi, che la forma ed il contenuto narrativo tenessero distinti i propri ambiti apparteneva all'autore quanto al lettore provveduto. Il lungo preambolo serve a dire che Maurizio Pierfranceschi attualmente non titola i dipinti, tranne qualche sporadico caso - Grande Metamorfosi; L'ultima rovina - in cui il farsi stesso dell'opera comporta un indizio di contenuto obbligato: per l'autore, non necessariamente per il suo pubblico. Perché? La risposta più chiara a tale quesito risale a Maurice Denis: "Ricordarsi che un dipinto - prima di essere un cavallo da combattimento, una donna nuda, o un qualsiasi aneddoto - è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori assemblati secondo un certo ordine" ( Art et Critique 23 e 30 agosto1890). Codesta intuizione teorica è memorabile, in quanto proviene da un pittore figurativo a tempo pieno, per giunta impegnato a ridar credito all'arte religiosa o neotradizionalista, come preferiva chiamarla. Venti anni prima che nascesse ufficialmente l'arte astratta, un pittore intelligente ne aveva inquadrato la regola essenziale, pur dimorando sull'altra riva del fiume. La norma può tranquillamente applicarsi alla lettura delle opere di Maurizio Pierfranceschi, ed è nostro compito tentare di ripercorrere, fin dove si può, l'iter del processo creativo. Che cosa innesca l'avvio del singolo dipinto di Pierfranceschi? Un progetto preformato nella mente? un colore? una macchia? un filamento che s'inerpica e indugia lungo la tela? Nella fase attuale della sua pittura, il lavoro concluso fa pensare a vegetazione (e senza dubbio tale è), realizzata dopo aver scelto una dominante in blu o in rosso o in qualsiasi altro colore. La natura fitomorfa delle immagini è evidente; dire di che piante si tratti è impossibile. Talvolta ci sembrano alghe o altre specie acquatiche, più spesso piante di terra osservate a diverse ore del giorno e anche di notte. Il mancato riconoscimento non è causato dalla distanza, né da un processo di camuffamento ma, ad evidentiam, perché cosi sono state pensate. Il colore di riferimento lo dà il fondo uniforme che impone al dipinto il tono complessivo. Ogni parte del dipinto sembra prendere carattere da quella scelta. Su quella base di colore, le pennellate che formano l'ordito, ossia La parte dinamica dell'immagine, si dispongono a fasci, in masse compatte, in filamenti tesi verso l'alto, in orizzontale, in intrichi quasi complanari, meno spesso in avvolgimenti densi nei quali La luce si fa rada. E’ superfluo osservare che un blu denso non indizia un'ora tarda e un giallo un'ora meridiana. I colori ubbidiscono solo ad una logica interna di consonanza o di dissonanza; non è giorno né notte, se non, eventualmente, nel pensiero costruttivo dell'autore che, ricordiamo, ha presente tutte le varianti eseguite e quindi procede alla ricerca di nuovi assetti; diciamo con proprietà, a nuove invenzioni. La prima opposizione dialettica è pertanto tra figura e fondo; poi tra Le pennellate mobili che guizzano, saettano, si attorcono, si distendono, si piegano, e La parte di dipinto che rimane statica; quindi tra colori. C'è, infine, una contrapposizione, meglio, indifferenza di un termine verso l'altro, tra struttura e narratività. La narratività ci dice che le conformazioni vegetali crescono, generano un percorso con accelerazioni ed arresti. Tuttavia, un altro osservatore potrebbe interpretare plausibilmente gli stessi elementi di alcuni dipinti come radiografie, colorate con dei reagenti speciali, o ancora come ingrandimenti al microscopio elettronico. Una ipotesi vale l'altra, l'interpretazione corretta dell'immagine non è essenziale per il suo apprezzamento estetico. La struttura ci dice che il pittore cerca l'equilibrio tra pieni e vuoti, l'armonia tra colori saturi e quelli fluorescenti o trascoloranti, l'equivalenza tra le zone in cui è diviso il dipinto, e tra verticali ed orizzontali. Siamo sul crinale di separazione tra astrazione e figurazione. Quel che si vede o ci par d'intendere è certamente oggetto, corpo, natura, ma l'insieme non è obbligatoriamente naturalistico. C'è come una contraddizione permanente. Se il punto di partenza è fisico, un oggetto indistinto, eppure vigorosamente presente alla coscienza; il punto di approdo, l'immagine che ne deriva, è astratto - colore, linee, superfici. Se il punto di partenza è astratto: un segno che occupa un campo, seguito da un altro in una successione intuitiva e quasi automatica; il punto di approdo, dopo tante aggiunte, cancellazioni e riprove, dà sempre la nozione di una presenza concreta, di un evento sui generis, con tutto il suo processo generativo. I due poli sono tenuti in equilibrio. Dobbiamo ora risolvere il problema del valore di questi aggregati di forme e di colori; dissipare il dubbio che operando casualmente, senza il supporto di un progetto interiore, con pennellate ora drastiche ora più esitanti ed esplorative si possano ottenere immagini e risultati equivalenti. Prendiamo in esame un'opera tra le più severe (04a03), sostanziata dai colori bruni, grigi e ocra fino al giallo. In basso a destra indugia una sorta di magma lentamente smosso. A sinistra svetta un'improvvisa condensazione di colori, frutto di un incrocio di pennellate; sopra si dispone un "cielo'' a varie densità di luce. Tutto il campo pertanto è diviso in tre parti diseguali, con qualità di pennellate differenziate. Il caso vi ha giuocato un ruolo minimo e, secondo me, ne è stato del tutto espunto. Un altro pannello difficile (04a11). Qui le zone sono solo due: il cielo (che non è affatto un cielo) azzurro occupa solo un quarto del totale. Il corso orizzontale dell'evento è contesto di un'infinità d'infrazioni: venature, impurità, tre stoccate di pennello a ventaglio, diradazioni della trama che fanno pensare ad un liquido che trascorre ad alta velocità. La metafora naturalistica viene spontanea, ma di quale evento o realtà descrivibile in modo attendibile? Ugualmente difficile dire cosa avviene nell'opus 04a12. È un notturno solo perché la tonalità dell'insieme è scura? La massa morbida che pigramente avvolge una lacuna simile ad un occhio e termina in un angolo nero è natura? è agente atmosferico? il residuo di una catastrofe che si sta riassorbendo? Con che cosa restiamo? Un sistema di pennellate ed una sensazione evocativa. Che ci sia un pensiero strutturante lo dimostra il fatto che Pierfranceschi approdi varie volte a risultati simili. Cambiati i colori, le proporzioni, le dimensioni dell'insieme, l'Opus 04a02 è concettualmente prossimo all'0pus 04a12 appena descritto; l'Opus 04a04 all'0pus 04a13; l'Opus 04a07 all'Opus 04a23. Qualche prova è assolutamente irriducibile a schemi, segno che la coscienza creativa è vigile e l'artista non si appaga di una sigla che funzioni. Perché si possa spendere il giudizio di valore artistico, è necessario che le opere, nella loro successione, abbiano in dote una furia ragionata, un fremito, un'eleganza senza affettazioni, una qualche specie di poesia, una logica irrefutabile. Pierfranceschi dice che "il fruitore vi passeggi dentro", io aggiungo che vi si abbandoni, lasciandosene invadere. Pierfranceschi ha un carattere diretto, senza fronzoli, che difficilmente pratica l'elegia e l'idillio; caso mai il suo temperamento sanguigno lo porta verso l'epica e comunque verso realizzazioni dinamiche, entro le quali le contemplazioni rasserenanti, l'eleganza anche civettuola assumono la funzione d'intermezzi. Ebbene sì, da codesta successione di dipinti sprigiona una forma di poesia inquieta, attivata, energica, che trova pace e requie solo nell'adozione di certi colori, specie il verde, il blu e, talvolta, i grigi. Finora sono stato in grado di considerare l'opera attuale di Maurizio Pierfranceschi al traguardo di una maturazione spontanea ed autonoma, senza ricorrere alle chiamate di correo di tutta la storia dell'arte. Ovviamente, resta da valutare la cronistoria precedente, con le sue lente conquiste, le pause creative e le intuizioni folgoranti. Al 1987 risalgono paesaggi di grande formato, nei quali gli alberi hanno un andamento frantumato, sfibrato, quasi mangiato dalla pastosa e collosa atmosfera avvolgente. Nel 1988 i casamenti di Torre Maura, sostanziati di rosa e verde, indiziano una materia spessa, tributaria dell'espressionismo di Soutine, molto somigliante alla tarda scuola romana di uno Stradone. II fatto che a quella data Stradone fosse solo un nome per Pierfranceschi, mentre i suoi numi tutelari erano Soutine e Scipione non vuol dire molto. Una volta diffusa, l'opera crea connessioni invisibili con realtà anche distanti e talvolta, come sostiene Borges, si crea persino i suoi precursori. Al 1989 si data una teoria di paesaggi che solo l'ottimismo della volontà può considerare tali. Ai nostri occhi si manifesta una coscienza lacerata che fa diventare case, rami e addirittura alberi qualche spuntone spezzato, grovigli introversi e sgarbati. Un po' come avvenne al cubismo che, per ritrovare il bandolo di una nuova forma rinunciò al colore. I lavori su cartone di quel periodo di Maurizio Pierfranceschi si organizzano sulla base di corposi segni neri (il disegno) su un fondo unito: paesaggi con rami o con case sono i titoli di questi aggregati di forme poco consolatorie e, per la loro natura di prove, di piccolo formato. Dal 1990 la reintroduzione delle figure avviene per velature trasparenti o come sagome, gli spazi tendono ad organizzarsi in maniera meno frammentaria e l'indicazione del soggetto - passero, fiori rossi, casa - ci guida alla decifrazione meglio garantita di quanto vediamo. Di tanto in tanto il color rosso torna vigorosamente in campo, ma il suo impiego non è in funzione di una maggiore articolazione. Il rosso sostituisce il chiaro o lo scuro, non diviene un terzo elemento di dialettica. Dal 1991 la pittura di Pierfranceschi assume l'assetto che conserva a tutt'oggi: la ripartizione del campo in più zone cromatiche; il ricorso a 3 o 4 colori fondamentali per dipinto; una figuratività più evocativa che descrittiva; un disegno molto marcato e una dialettica interna all'immagine semplice, quasi schematica. Ogni tanto la scelta del grande formato c'informa di una maggiore sicurezza del traguardo avvistato: Uptown (cm. 219 x 73), L'angelo senz'ali (cm. 210 x 205), La cacciata (cm. 103 x 75). I dipinti del 1992 ci forniscono un ulteriore schema concettuale: spazi regolari, in partenza a ragione geometrica, e figure; eventi pittorici assimilabili ad una narrazione e pennellate libere, irregolari, con un quid d'anarchico di tanto in tanto. Il 1993 sembra rifare con maturità e sicurezza consolidate il percorso già osservato nel 1990. A partire dal 1994 possiamo considerare Pierfranceschi pittore di risultati e non solo di studi ed esperimenti. I lavori di medio formato (ca. cm. 100x150 ciascuno) sono un prodigio d'equilibrio, di geometrizzazione non meccanica e di libertà, sia nelle sagome d'invenzione sia in quelle che suggeriscono latamente degli oggetti; anche i colori, nella loro pienezza, concorrono alla felicità del momento. Nel periodo successivo (1996), Pierfranceschi si mette su una lunghezza d'onda teorica molto simile a quella del citato Maurice Denis: voler rigenerare una tradizione senza buttar via nulla della stessa. I dipinti più espliciti denotano una prevalenza del mestiere sulla creatività, quelli più misteriosi e funambolici hanno risorse profonde e possono competere nel creare suggestioni in chi le contempla con opere letterarie e con dipinti entrati nell'immaginario collettivo. Trovo che alcuni dipinti, soprattutto di fiori, hanno un andamento didascalico, di gradevole effetto esteriore; lavori quali Interno arancio; La morte arriva; Paesaggio con nuvola gialla sono invece corredati di una migliore giustificazione interiore, più autentici e rivelatori nell'epifania. Il 1997 è un anno di transizione nel quale Pierfranceschi si sofferma al livello esaminato finora e, nel 1998 e '99 fanno la loro comparsa le tele nelle quali le pennellate sembrano descrivere un elemento liquido che trascorre a velocità vertiginosa. Si tratta di dipinti austeri nei colori e nella composizione relativamente semplice, ad andamento rettilineo. Non sono nati per solleticare le corde più facili degli spettatori. Le successive elaborazioni di codesto tema, meno austere e più ricche di variazioni, effetti luministici e quasi aneddotici, sembrano voler aggiungere ad una grammatica di base e ad un lessico il valore supplementare di un testo ben congegnato e letterariamente valido. Dipinti che portano il titolo Illuminato; Natante su acque palustri; Panneggio; Specchio d'acqua sono molto simili l'uno all'altro per concezione. Il titolo ci dice che risonanza interiore determinano nell'animo dell'artefice, ma è fuorviante concluderne che Pierfranceschi inizi un lavoro in rosso e si riprometta di chiamarlo Pompeiano, anche perché già cominciano ad affacciarsi i primi "senza titolo", pur composti nella stessa temperie e con gli stessi mezzi espressivi. Nel 2000 questa fase di pittura d'effetti senza oggetto raggiunge l'acme, dopo di che all'interno dei dipinti si manifesta come un quadro nel quadro, una sagoma o una figura centrale contornata da un esteso margine dipinto. I paesaggi ed i notturni del 2002 sono visivamente diversi dai "senza titolo" (anno e formato identici), ma eseguiti con lo stesso spirito e gli stessi mezzi. Il referente naturalistico è pertanto un pretesto, un accorgimento per confortare l'occhio in quel che vede, una strizzata d'occhio, col sottinteso che la qualità vera di quanto raffigurato non sta nella sua corrispondenza al titolo, sibbene nella scienza di quelle pennellate brumose, nella compenetrazione in trasparenza di una zona con l'altra, nell'elezione dei singoli colori, anche quando ad una osservazione superficiale appaiano ermetici. E con questo siamo arrivati al 2003, altro anno di transizione, di esperimenti con plastiche dai colori cosi vividi, decorticati quasi, al punto di produrre dolore fisico. Riconosco la necessità di questa fase pittorica per disincagliarsi da un modulo la cui perfezione rischiava di farsi stilema, sigla. Pierfranceschi aveva bisogno di far tabula rasa per consentirsi una ripartenza originale. La sapienza del mestiere è acquisita e fa da garante; alle nuove immagini il compito di riconquistarsi la freschezza dell'inedito e della creatività primigenia. I traguardi di quest'ultimo scorcio dell'operosità del pittore costituiscono e sostanziano le belle prove delle quali ho dato conto all'inizio. Tutti o quasi i "senza titolo" sono mondo esterno, particolari di piante e dei loro intrecci, ai quali dobbiamo aggiungere la serie degli interni architettonici, nitidi, ben scanditi: spazi che si serrano o si dilatano con semplicità armoniosa. Se l'ungarettiano "m'illumino d'immenso" è l'abolizione di tutti i confini con sole tre parole, Pierfranceschi quei confini materici li riempie di luce e colore ed è un grande merito non solo non essersi ispirato a Rothko, ma non averci nemmeno pensato. La grande metamorfosi e L'ultima rovina portano titoli epici o apocalittici, ma giusto per metafora. Agli inizi, ormai remoti nel tempo, Maurizio Pierfranceschi partiva dalla natura come ancoraggio e forma di autodisciplina per pervenire alla pittura, quanto possibile audace ed indenne da schemi. Attualmente il fare pittorico ha il sopravvento e si avvale dell'ausilio dell'oggetto naturale per non divenire casuale ed arbitrario. Maurizio Pierfranceschi non è un pittore anarchico. |
Un colloquio con Maurizio Pierfranceschi
di Carlo Alberto Bucci Li chiami "paesaggi", ma quasi mai c'e una linea d'orizzonte o una finestra spalancata sul cielo, tanto meno una prospettiva che corra verso l'interno per lasciare li, nel fondo, l'illusione di un punto di fuga da raggiungere. C'è la natura, certo. Ma umida, rigogliosa, incombente. Tutta addosso. Come se fosse guardata col naso premuto sul vetrino di un microscopio. Come se il pittore, o lo spettatore, si fosse immerso in un fitto canneto, perso in una palude. I quadri di questa mostra hanno qualcosa di lacustre che li avvicina alle tele della tua personale di cinque anni fa, proprio qui, al Segno. Maurizio Pierfranceschi - Veramente già nel 1994 Ruggero Savinio aveva notato che nei miei dipinti “le superfici calme e nette lasciano trasparire un'oscura proliferazione, come dalle profondità acquatiche traspare la vegetazione” . Quindi non è un caso che per alcuni titoli delle opere della mostra del 2000 io abbia ripreso gli erbari ottocenteschi. La descrizione (che spesso ha un tono antiquato, dannunziano) del Luogo da dove le piante furono colte per essere essiccate dai botanici, mi ha dato - e talvolta mi dà ancora - un suggerimento per i titoli: Natante su acque palustri, Sui corpi sommersi, In terra limosa, oppure Su muschi inondati. E nei dipinti che chiami "architetture"? C'è qualcosa che li accomuna ai paesaggi. Non sono palazzi, piuttosto frammenti di interni o di facciate: stipiti o cornici di finestre, davanzali, porte. Elementi avvolti dalla luce, oppure immersi nell'ombra. Anche in molti di questi quadri c'è una superficie trasparente, e riflettente; sì, c'è una suggestione acquatica. Si va dall'acqua che può essere contenuta in un catino alle superfici più vaste, come I'oceano, ricordato dal grande quadro blu che esponi adesso. A proposito, come si intitola? Non lo so, perché mi riesce sempre più difficile, ultimamente, dare un titolo: forse perché vorrei che l'attenzione si concentrasse sui valori pittorici. Comunque, non penso ai mari o agli oceani. No, luoghi così vasti non mi appartengono. Mi bastano spazi più ridotti, come la pozza di un torrente. Lì c'è sempre qualcosa sotto il velo dell'acqua trasparente: un colore, una vibrazione oppure un granchio. L'acqua lega le opere di oggi a quelle di ieri. Ma i dipinti del 1999-2000 erano realizzati su tele e stoffe di diversa qualità e grammatura, cucite da te lasciando in evidenza la "cicatrice"; oppure conciate in maniera tale che non fossero stese, piatte, ma in modo che le pieghe vere - vere, del resto, come le cuciture - interagissero con la pittura a olio che stendevi loro addosso. Nei nuovi quadri il supporto ha perso questa matericità. Perché? Le "cicatrici" e i "panneggi plastici" mi servivano a far sì che le opere divenissero concrete, oggettive; reali come i sacchi di Burri, non realistiche. Alla fine di quel periodo, però, la pittura mi aveva portato in una dimensione in cui non trovavo più le cose del paesaggio. Tutto, i miei rami, le foglie, le mie architetture, veniva inghiottito dalla superficie fisica dell'opera, che era diventata ormai "soggetto". Certo, Nel buio fitto della faggeta o In nicchia ombrosa il monocromo è praticamente assoluto. Ma perché adesso la natura è riapparsa nei suoi dettagli minimi, essenziali? Dipingo rami e rovi perché sono strutture architettoniche. Il paesaggio vasto che s'apre a vista d'occhio, sa troppo di racconto. E io voglio fare pittura, non letteratura. II viaggiatore del Canto notturno, del 1997, oppure i commensali della Colazione, dipinto I'anno dopo, sono figure che non hanno peso, come del resto accade spesso nei tuoi dipinti "figurativi". Prendono forma quasi solo attraverso una sottile linea di contorno. Corpi senza corpo, insomma. E si che il tuo professore all'accademia di Belle arti è stato uno scultore, Emilio Greco. Come mai? È vero, i corpi, quando ci sono, sono minimi, accennati, trasparenti. Il fatto è che quando immetti una figura in un quadro, questa si im- possessa subito della scena. Diventa immediatamente il soggetto. Tiranneggia l'opera. E la letteratura prende il posto della pittura. Attraverso le architetture e il paesaggio, io mi concentro sulla struttura del quadro ed evito così la trappola del racconto. Morandi l'ha capito presto. S'è fatto un autoritratto e poi non l'ha fatto più. Il grosso di questa mostra sono quadri di piccolo formato e alcuni ricordano, anche per questo, Morandi. Eppure, lo spessore della pennellata è lo stesso delle opere dipinte sulle tele più grandi. Non riporto in una scala minore ciò che era nato in grande, non miniaturizzo la pittura. Il fatto è che avevo bisogno di una misura che mi permettesse di rimanere più concentrato sull'immagine che stava riaffiorando. E, proprio nel piccolo formato, ritrovo la forza plastica che nelle vaste superfici, volutamente, smarrisco. Comunque, ogni misura ha la sua natura. Ed è la natura del quadro che bisogna assecondare nel suo farsi forma. lo, del resto, non inizio mai da un progetto. Parto sempre al buio. E ciò significa essere aperto alle infinite possibilità che ti si pre- sentano mentre dipingi, un po' come succede a un rabdomante in cerca dell'acqua. Non hai paura del buio, non temi di perderti? No, dipingo seguendo un processo psichico che lentamente si mette in moto, si intreccia e si biforca per poi ricongiungersi in un luogo e in una forma a volte inaspettati. Le opere appaiono come i labirinti o le mappe delle mie ossessioni. Tornando al fare, lo smarrimento è solo all'inizio. Il quadro è come un bambino che "dai alla luce" e che accompagni fin quando non cammina da solo. Quando lo lasci? Quando il sentimento prende forma, si incarna, diventa pittura. Quando "suona" giusto. E come fai a ripartire da capo, magari iI giorno dopo, su un'altra tela? Quando il sentimento prende forma, si incarna, diventa pittura. Quando "suona" giusto. Dipingi tutti i giorni? Solo quando ne ho necessità. Se non c'è un'urgenza alla quale rispondere con la pittura, non lavoro. Ogni dipinto è un'interrogazione sul senso del fare pittura, oggi; sul rapporto con la natura; sulle relazioni sempre difficili tra le persone; sugli scontri tra realtà differenti ai quali - pensandoci bene - in qualche modo mi avvicino attraverso i contrasti tra grande e piccolo, ruvido e morbido, violento e delicato. La pittura che si interroga su cosa significhi fare pittura ... non pensi che ['artista debba contaminarsi con il vissuto, confrontarsi con gli altri media, partecipare attivamente con la sua opera ai cambiamenti sociali, fare atto di presenza attiva rispetto ai problemi dell'umanità, "sporcarsi le mani" con la quotidianità, come si dice spesso? Non mi interessa la cronaca e non sopporto la sociologia applicata all'arte. Per carità, Maurizio, la penso come te. Ma certe volte mi sento un dinosauro. Mi sembra che le parole d'ordine siano altre. Altri i termini vincenti. E che sentimento, passione, incanto, appartengano al passato. A proposito, tu parli spesso di Burri, Matisse e Morandi. Sono i tuoi veri maestri. E uno di loro, Burri, l'artista che certamente ha significato di più per te, l'hai anche conosciuto personalmente. Insomma, non senti il peso di questi giganti, non hai paura che ti schiaccino. Per niente. Sono amici che ancora mi aiutano nei momenti difficili del mio lavoro. Sono in qualche modo i Lari del mio studio. Con loro è il mio dialogo, non con i vivi. Con i vivi ci vivo. Faccio parte del mio tempo, che lo voglia o no, non mi serve dare testimonianza della mia esistenza nel lavoro. E poi prendi L'Apparizione di Bernardo Daddi alla Pinacoteca vaticana, che conosci bene: per me è viva, è stata dipinta oggi e intatto è l'incanto che restituisce a chi s'inoltra in quell'interno struggente. Ecco, "struggente" vorrei si potesse dire di un mio quadro. Trovi ispirazione solo nell'opera di grandi maestri? Ispirazione non è il termine esatto ... comunque, no. Trovo bellissimi e moderni, ad esempio, i dipinti delle predelle, del Tre o del Quattrocento, che sono spesso opera di maestri ignoti. Se rimango attratto da queste tavolette di settecento anni fa è perché c'è una grazia, un sentimento forte che continua a parlarmi anche se non so chi le abbia dipinte. E a volte sono frammenti che il tempo ha reso assoluti perché ha ra- schiato via dal supporto la cronaca e la retorica che il committente aveva imposto al pittore. È il sublime delle rovine. È qualcosa di più concreto. Il tempo che ha portato via una testa è una lacuna che rompe il racconto e che ci restituisce il dipinto nei suoi valori pittorici. Pura pittura, insomma. La pittura liberata dalla presenza del pittore ... Se tra un secolo un frammento di un mio quadro sarà capace di emozionare anche una sola persona che l'avrà davanti agli occhi, allora vorrà dire che non ho fallito. Molti coinvolgono il pubblico nella fruizione, e anche nella realizzazione, di un'opera. Qual è il tuo rapporto con lo spettatore? Vorrei che i miei quadri creassero un legame tra me, chi guarda e l'arte che abbiamo alle spalle, come se, attraverso il mio lavoro, si potesse riscoprire qualcosa di nascosto o di dimenticato. Voglio ricollegarmi al passato e attraversare il tempo senza che dei miei lavori si possa dire: “Anni Novanta” . Come invece accade per certe opere che, appena le vedi, esclami: “Anni Sessanta” . Ma tu, davanti a Lucio Fontana o a Burri, pensi mai: “Anni Cinquanta?” . No, vero? Tu dici: “Adesso”. Ti guardi indietro e pensi all'eternità. Non ti senti, non dico un "anacronista", che connota una tendenza precisa dell'arte del secolo scorso, ma sì un pittore del passato. No, io penso di essere un “artista tradizionale”, nel senso che utilizzo gli strumenti della tradizione. Dei maestri, antichi o contemporanei, non mi interessa il linguaggio ma l'autenticità delle domande di sempre: come lo spazio e il vuoto, la vita, la morte. Più che ciò che ci divide, dell'arte del passato mi interessano i vincoli profondi che ci legano ad essa. C'è un filo invisibile che parte da L'ombra della sera etrusca e arriva a Giacometti. Venendo all'oggi, quali sono gli artisti ai quali ti senti vicino. Baselitz, ad esempio, ha sempre lavorato dentro la pittura, con i mezzi "tradizionali" della pittura, della scultura, dell'incisione, per fare figure, uccelli, paesaggi. E così incarna perfettamente il nostro tempo. Anche Kiefer esprime, pur nella diversità dei modi, questa potenza. L'urgenza di creare attraverso la pittura è più forte della bellezza, dell'eleganza, del contenuto, dell'ironia ... In sintesi, non confondono mai "l'espressione" con "la comunicazione". Pensi agii artisti tedeschi e guardi alla natura e al paesaggio lasciandoti trasportare dal sentimento dell'opera, fin quasi a perderti in essa. Sei un artista romantico, te ne rendi conto? Se lo dici tu ... Il fatto è che io mi sento un "muratore". A me interessa la costruzione architettonica del quadro, che cresce con un’orizzontale, una verticale, un pieno, poi un vuoto. C'è una forza costruttiva che lo anima e una forza psichica che deve abitarlo. Dipingo per far sì che la pittura stia in piedi, come una sedia o una casa. O, meglio ancora, come un chiostro che è aperto e riparato al tempo stesso, costruzione e natura: il Luogo assoluto. Circa sei anni fa, ti ricordi?, chiacchierando in vista della mostra "Paesaggi italiani" che facemmo insieme al Museo Virgiliano, mi parlasti delle pozzanghere. lo usai in parte le cose che mi dicesti per il testo in catalogo. Ridimmelo, cosa è per te la pozzanghera? È in qualche modo una piccola metafora dell'arte, che non ti fornisce una soluzione né ti indica la strada. Però ti mette in contatto con il mondo non materiale. Insomma, sì, è elevazione spirituale. La pozzanghera? Un giorno cammini a testa bassa per una strada, ragionando sulle tue cose, immerso nei tuoi pensieri. E, a un certo punto, scavalchi una pozzanghera. Ti accorgi, allora, solo allora, grazie a questo specchietto d'acqua piovana sporca, che in alto c'è un ramo, poi un albero e, più su, il cielo. Come un quadro, la pozzanghera ti porta in un altro mondo. E, come un'opera d'arte, è fragile. Basta che arrivi il sole ad asciugarla, e del ramo riflesso su quel velo d'acqua non rimane nulla. |