1999 L'amicizia dei colori
Maurizio Calvesi
Chi tenga presente la divisione tra astratto e figurativo, difficilmente potrebbe collocare in una delle due caselle il lavoro di Maurizio Pierfranceschi, diversamente da chi consideri la pittura nella sua duplice e non antagonistica natura di operazione percettiva e mentale. I due momenti, percettivo e mentale, interferiscono sempre tra loro, variando tuttavia la precedenza che l'uno ha sull'altro, e in Pierfranceschi il momento percettivo sembra decisamente precedere la geometria mentale che vi si sovrappone. Pierfranceschi elabora dati percettivi, riceve i propri impulsi dalI'osservazione di un elemento oggettivo, che può essere anche minimale, il dettaglio di un interno o di una veduta, certe condizioni di luce, uno spazio inquadrato dall'occhio da una posizione ravvicinata o a distanza e di conseguenza più ristretto o più ampio, fino al paesaggio, ma comunque "tagliato" da linee di confine che fungono da coordinate e sviluppano una ricerca costruttiva all'interno del quadro. Stiamo parlando della sua opera considerata dagli inizi e prima dell'ultima evoluzione. La costruzione è affidata al colore, ma non a pennellate libere e debordanti, bensì a zone modulate dalla luce, che il telaio lineare accosta fra di loro lasciando poi svanire le proprie tracce e consentendo così, nel morbido rapporto di contiguità, una comunicazione respirante della partitura; questa si fonda su un pareggio delle quantità nella qualità. Le quantità del colore, i timbri e la variabile estensione delle sue superfici, si rapportano a un'uniforme qualità luminosa che annulla ogni scarto o dissonanza, fondendo come attraverso un sottilissimo filtro gli accenti anche più vivaci dei rossi, dei blu, o dei verdi. Solo talvolta gli oggetti di riferimento - in particolare, quando ci sono, le figure - sono riconoscibili, pur nell'intermediazione. Indeterminata è anche la profondità, che solo raramente si affida a qualche accenno di scorcio prospettico ed è invece suggerita, piuttosto, dalla profondità stessa del colore, dall'avanzare o aggallare, dei toni più chiari o accesi e dal rientrare, come inghiottito, dei toni più scuri. Questo movimento ha luogo in un'atmosfera ovattata, che è l'eco del reale nella sua schermata ricezione interiore. Il dato percettivo, infatti, è interiorizzato in un momento di assorta meditazione o di pacificato sentimento contemplativo, dal quale sembra sprigionarsi I'avvolgente e dolce timbro di luce, come intriso di una felice memoria amica che riconosce nell'amicizia dei colori l'amicizia della natura e delle cose quotidiane. In un dipinto del 1992 battezzato da Pierfranceschi "L'abbandono", credo di poter decifrare questo titolo non come abbandonare o essere abbandonati, ma come abbandonarsi. Mi attento anche a decifrare lo spazio in prospettiva sulla sinistra come una stanza, o una casa, da cui la sagoma di una persona [il pittore?) si protende affidandosi a un planante volo di sogno, nel soffice grembo della notte, ai margini di un cielo ancora illuminato. Nelle opere più recenti, la presenza della luce diventa protagonista; non è più tenue il velo che unifica le distinte zone, ma è la sostanza stessa della pittura, che imbevendo il colore, lo identifica con il proprio flusso e modula in variazioni di tono una superficie tendente al monocromo. Questa ascetica contemplazione dei movimenti della luce, che sono spazio e forme nello spazio, il rientrare o l'emergere in bande di frequenza più dense o più rarefatte che lasciano intuire l'affiorare di una figura, di un oggetto o il fantasma di un fondo, poco si presta alla descrizione della parola, evocando piuttosto il silenzio e favorendo l'ascolto solo intimo di una contemplazione fattasi palpito e sentimento. Si comprende anche come la vocazione percettiva della pittura di Pierfranceschi non venga meno con l'attenuarsi, fino alla dissolvenza, di quelle forme che in precedenza registravano le geometrie, sebbene già evanescenti, dello spazio o le sagome dei corpi. La percezione li ha come penetrati registrandone l'essenza ultima di luce, ed è l'occhio attento alle nuances del sensibile, che continua a guidare la mente fino alle soglie di un arresto estatico.
Chi tenga presente la divisione tra astratto e figurativo, difficilmente potrebbe collocare in una delle due caselle il lavoro di Maurizio Pierfranceschi, diversamente da chi consideri la pittura nella sua duplice e non antagonistica natura di operazione percettiva e mentale. I due momenti, percettivo e mentale, interferiscono sempre tra loro, variando tuttavia la precedenza che l'uno ha sull'altro, e in Pierfranceschi il momento percettivo sembra decisamente precedere la geometria mentale che vi si sovrappone. Pierfranceschi elabora dati percettivi, riceve i propri impulsi dalI'osservazione di un elemento oggettivo, che può essere anche minimale, il dettaglio di un interno o di una veduta, certe condizioni di luce, uno spazio inquadrato dall'occhio da una posizione ravvicinata o a distanza e di conseguenza più ristretto o più ampio, fino al paesaggio, ma comunque "tagliato" da linee di confine che fungono da coordinate e sviluppano una ricerca costruttiva all'interno del quadro. Stiamo parlando della sua opera considerata dagli inizi e prima dell'ultima evoluzione. La costruzione è affidata al colore, ma non a pennellate libere e debordanti, bensì a zone modulate dalla luce, che il telaio lineare accosta fra di loro lasciando poi svanire le proprie tracce e consentendo così, nel morbido rapporto di contiguità, una comunicazione respirante della partitura; questa si fonda su un pareggio delle quantità nella qualità. Le quantità del colore, i timbri e la variabile estensione delle sue superfici, si rapportano a un'uniforme qualità luminosa che annulla ogni scarto o dissonanza, fondendo come attraverso un sottilissimo filtro gli accenti anche più vivaci dei rossi, dei blu, o dei verdi. Solo talvolta gli oggetti di riferimento - in particolare, quando ci sono, le figure - sono riconoscibili, pur nell'intermediazione. Indeterminata è anche la profondità, che solo raramente si affida a qualche accenno di scorcio prospettico ed è invece suggerita, piuttosto, dalla profondità stessa del colore, dall'avanzare o aggallare, dei toni più chiari o accesi e dal rientrare, come inghiottito, dei toni più scuri. Questo movimento ha luogo in un'atmosfera ovattata, che è l'eco del reale nella sua schermata ricezione interiore. Il dato percettivo, infatti, è interiorizzato in un momento di assorta meditazione o di pacificato sentimento contemplativo, dal quale sembra sprigionarsi I'avvolgente e dolce timbro di luce, come intriso di una felice memoria amica che riconosce nell'amicizia dei colori l'amicizia della natura e delle cose quotidiane. In un dipinto del 1992 battezzato da Pierfranceschi "L'abbandono", credo di poter decifrare questo titolo non come abbandonare o essere abbandonati, ma come abbandonarsi. Mi attento anche a decifrare lo spazio in prospettiva sulla sinistra come una stanza, o una casa, da cui la sagoma di una persona [il pittore?) si protende affidandosi a un planante volo di sogno, nel soffice grembo della notte, ai margini di un cielo ancora illuminato. Nelle opere più recenti, la presenza della luce diventa protagonista; non è più tenue il velo che unifica le distinte zone, ma è la sostanza stessa della pittura, che imbevendo il colore, lo identifica con il proprio flusso e modula in variazioni di tono una superficie tendente al monocromo. Questa ascetica contemplazione dei movimenti della luce, che sono spazio e forme nello spazio, il rientrare o l'emergere in bande di frequenza più dense o più rarefatte che lasciano intuire l'affiorare di una figura, di un oggetto o il fantasma di un fondo, poco si presta alla descrizione della parola, evocando piuttosto il silenzio e favorendo l'ascolto solo intimo di una contemplazione fattasi palpito e sentimento. Si comprende anche come la vocazione percettiva della pittura di Pierfranceschi non venga meno con l'attenuarsi, fino alla dissolvenza, di quelle forme che in precedenza registravano le geometrie, sebbene già evanescenti, dello spazio o le sagome dei corpi. La percezione li ha come penetrati registrandone l'essenza ultima di luce, ed è l'occhio attento alle nuances del sensibile, che continua a guidare la mente fino alle soglie di un arresto estatico.