1991 Galleria de' Serpenti
Paolo Balmas
Dipingere è un altro modo di vivere. Una maniera diversa di abitare lo spazio e muoversi nel tempo. Il mondo ne esce cambiato, e, di certo, non solo perché ad esso si sommano forme nuove e nuovi colori. Ciò che muta, al di là delle apparenze è, semmai, la sua permeabilità al dato dell'esistere, la sua disposizione ad accogliere proiezioni e pretese di un soggetto che da semplice portatore di affetti si trasforma in costruttore d'immagini. Chi non fa arte vive, rispetto a quanto lo circonda, in una condizione di biunivocità imperfetta: registra ogni mutamento esterno come evento estraneo alla sostanza dell'io e procede imperterrito fino al momento in cui non si accorge di essere mutato egli stesso, magari specchiandosi proprio in ciò che l'artista gli pone davanti. La pratica della pittura stabilisce, invece, tra la propria crescita e il dispiegarsi di eventi che percepiamo come concreta realtà un rapporto di rilancio continuo. Ogni immagine messa a punto ci rivela nuovi aspetti e valori del visibile, ogni nuovo aspetto o valore ci suggerisce ulteriori immagini cui dare forma. Una forma peraltro, che necessariamente, quale segno possibile, in un modo misterioso e palese ad un tempo, deve già appartenerci. Ciò che il pittore produce insiste dunque su di un'area di consapevolezza che produce senza sosta tutti gli strappi e tutte le sintonie di cui abbiamo bisogno per nutrire ancora il nostro spirito e mantenerlo all'altezza di quel maligno dono degli dei che sta alla radice della poesia: l'accesso di sensibilità. L'opera d'arte viene allora a definirsi come momento di ineffabile responsabilità, come documento che nessuno ci ha obbligati a conoscere, ma che ci riguarda tutti e di cui in qualche modo possiamo chiedere conto al suo autore. Maurizio Pierfranceschi tutto questo lo sa molto bene, lo sente profondamente e lo verifica ogni giorno nel proprio lavoro, non dobbiamo quindi meravigliarci se, navigatore solitario da sempre, ha deciso negli ultimi tempi di acuire il più possibile lo sguardo per oltrepassare serenamente i modesti esercizi di grammatica sui quali tanti tornano oggi ad insistere. Il suo impegno, il suo modo di farsi carico della responsabilità succitata è ad evidenza quello di non mettere mai "al mondo" alcuna immagine la cui intensità e la cui tenuta d'insieme non siano pensate per resistere intatte alle tante turbolenze semiotiche che sono nell'aria, alle mille prevedibili strategie di programmata obsolescenza che qualcuno regolarmente si incarica di contrabbandare per vere e proprie tempeste. Da un punto di vista sintattico gli strumenti del nostro artista sono inappuntabili e fanno effettivamente pensare a quelli che egli stesso dichiara come propri referenti ideali: la secca narratività della scultura romanica e la misura informale di Burri. Tuttavia, forse proprio aiutati dalla suggestione che da tali referenti promana, non tardiamo ad accorgerci che l'isolamento di una dimensione sintattica, intesa come dato autonomo e strutturante, ai fini di un affondo diretto nel lavoro di Pierfranceschi non è in alcun modo una mossa proficua. Bilanciamenti, omologie, contrasti, spinte dinamiche e controspinte statiche, restano, infatti, sia sul piano cromatico che su quello della linea, dati e riscontri del tutto inerti fino a che non ci si sforza di riconsiderarli come sottomessi ad un superiore ideale: quello di una complementarietà inversa e assoluta tra le abissali vibrazioni del senso e la durezza ascetica del linguaggio. E di questo ideale le due grandi tele affrontate nella presente occasione sono in qualche modo, ciascuna a suo modo, il manifesto e la controprova. Se la didascalica banalità dell'idea non risultasse fuorviante le si potrebbe tranquillamente rinominare come "il giorno" e "la notte". Vale a dire gli emblemi aderenti e antitetici di uno stesso disagio, di una medesima impervia restituzione: il ritratto dell'artista inteso come soggetto che costruisce se stesso nel ridefinire il mondo per il tramite della pittura. Di giorno sostiene Pierfranceschi siamo assai più addormentati che di notte: gli strumenti del sopravvivere ci accecano col loro gioco d'incastri indifferente e perfetto, con una democrazia ingegneresca che devasta le incolte, innocenti riserve del sentimento e ci rovescia addosso a prezzi di usura una cornucopia di luccicanti sciocchezze. Di notte siamo molto più vicini a noi stessi, ma ancora una volta non siamo padroni della nostra persona, istinti, desideri e appetiti ci aleggiano intorno come cani liberi dalle loro catene, la natura preme dall'interno sui nostri occhi e sui moti acerbi del cuore, ma il mondo è lontano, sono lontane le cose che non ci appartengono e chiedono di esistere, è lontana la materia che vuole farsi pensiero per condurci ancora, quale guida devota e sicura, lungo i crinali del fare, dell'agire come suggello e garanzia del conoscere. Ma se conoscere è conoscersi e né il giorno né la notte ci sottopongono intera una idea di soggetto che sia umana ed aperta almeno quanto basta per comunicare col nostro io, quale mai potrà essere la strada per cominciare a scambiarsi davvero qualcosa con tutti gli altri? Con tutti coloro, s'intende, che non hanno certezze, ma non si sono ancora assuefatti all'amore del nulla? Maurizio Pierfranceschi questa strada non la conosce e non pretende davvero d'insegnarcela, sa però che la sua arte, come tutte le arti, sarà qualcosa di vivo e palpitante solo se ad essa strada continuerà a tendere con tutte le sue forze e sa anche che la forza dell'arte è la forza stessa del linguaggio. Ma su questo bisogna intendersi, sui mezzi e i poteri del linguaggio, sulle sue armi più efficaci e appuntite che non sono certo né quelle dell'astuzia, o del colpo ad effetto, né quelle dell'inventario progressivo e sinottico, dell'elenco infinito d'inutili elementari particelle. La sua ipotesi è un'altra e, come del resto non pochi giovani artisti cominciano oggi a comprendere, passa per la ricostituzione della soggettività, per l'interrogazione di quella sottile entità che collega tra loro le energie del sentire con le apparenze del reale. Certamente tutte le invenzioni della pittura, tutti i segni che mai un artista riuscirà a far emergere sulla superficie del quadro, come abbiamo già detto, devono essere considerati come intersezioni di funzioni possibili, come varianti logicamente plausibili di uno sterminato gioco di trasformazioni. Ciò che però nessuno sviluppo di una qualsivoglia fantastica matrice universale potrà mai produrre è l'atto stesso del riconoscimento, è l'assunzione del segno come obiettivo comunicazionale raggiunto, come valore umano ancora sconosciuto alla ricerca del quale si è però progressivamente assestata la propria mira. Bene, la poetica di Pierfranceschi è proprio tutta qui, tutta nel suo modo di assestare la mira, nel suo modo di interrogarsi in quanto soggetto. I1 suo metodo, se di metodo si può parlare, è quello del prosciugamento, della verifica di tutti i dati espressivi che un assorbimento dialettico e spesso - perché no? - anche traumatico delle immagini del quotidiano, mette a disposizione di una resa abile e convulsa, piena ed appassionata, educata persino attraverso disperate e paradossali sedute all'aperto. E naturalmente verifica vuol dire per il nostro artista rinuncia al superfluo, rinuncia anche alla più allettante ridondanza laddove un unico segno mostri di saper assorbire le vibrazioni di tutti gli altri. Ma questo metodo non sarebbe ancora nulla ed anzi batterebbe strade sicuramente già percorse se non avesse a sua volta un valore preparatorio, se non si facesse umile strumento di una reiterata rottura del telos all'interno del quale anche l'esercizio della pittura più secca ed ascetica è fatalmente imbrigliato. Dire però che questa rottura, questa epifania, si coagula sic et simpliciter nell'apparizione di immagini archetipe o simbologiche più o meno platealmente leggibili sarebbe una ingiusta semplificazione, un vero e proprio travisamento. In realtà lo scenario che la sapienza pittorica di Pierfranceschi appronta per queste apparizioni riassorbe e ricomprende le stesse nella esatta misura in cui queste producono la sua vitalità e l'autonomia dell'intera opera. Si veda ad esempio l'angelo della grande composizione in rosso che abbiamo proposto di rinominare come dedicata al giorno, esso, mi ha assicurato Pierfranceschi, e non ho motivo di non credergli, è letteralmente apparso solo quando il processo di riduzione e di verifica dei dati di partenza è giunto al suo culmine. La figura china che il nostro angelo raccoglie in un atto di piena fusione formale e che ritroviamo poi adagiata all'altro estremo della scarna ma vigorosissima scena è apparsa con esso e con esso condivide un’infinita apertura all'investimento di senso. Allo stesso modo nella composizione a registro notturno che al quadro in questione si contrappone sono state le stesse immagini emerse da un improvviso meditabondo risveglio (l'uccello, l'albero, la finestra, ecc.), a chiedere di essere liquefatte ed insieme parzialmente cancellate così come le ritroviamo sotto la pasta irreale e rappresa dei viola e dei blu. In nessuno dei due casi, infine, ha senso pensare ad un riferimento iconologico colto. Il messaggio passibile di essere ritradotto in aforismi verbali non va al di là del semplice ammonimento: impariamo a sognare di giorno e manteniamoci lucidi la notte, ma il messaggio inteso come avventura del sentimento alla rincorsa delle insondate risonanze che in un attimo solo ne hanno invaso il campo è sicuramente inesauribile. (1991)
Dipingere è un altro modo di vivere. Una maniera diversa di abitare lo spazio e muoversi nel tempo. Il mondo ne esce cambiato, e, di certo, non solo perché ad esso si sommano forme nuove e nuovi colori. Ciò che muta, al di là delle apparenze è, semmai, la sua permeabilità al dato dell'esistere, la sua disposizione ad accogliere proiezioni e pretese di un soggetto che da semplice portatore di affetti si trasforma in costruttore d'immagini. Chi non fa arte vive, rispetto a quanto lo circonda, in una condizione di biunivocità imperfetta: registra ogni mutamento esterno come evento estraneo alla sostanza dell'io e procede imperterrito fino al momento in cui non si accorge di essere mutato egli stesso, magari specchiandosi proprio in ciò che l'artista gli pone davanti. La pratica della pittura stabilisce, invece, tra la propria crescita e il dispiegarsi di eventi che percepiamo come concreta realtà un rapporto di rilancio continuo. Ogni immagine messa a punto ci rivela nuovi aspetti e valori del visibile, ogni nuovo aspetto o valore ci suggerisce ulteriori immagini cui dare forma. Una forma peraltro, che necessariamente, quale segno possibile, in un modo misterioso e palese ad un tempo, deve già appartenerci. Ciò che il pittore produce insiste dunque su di un'area di consapevolezza che produce senza sosta tutti gli strappi e tutte le sintonie di cui abbiamo bisogno per nutrire ancora il nostro spirito e mantenerlo all'altezza di quel maligno dono degli dei che sta alla radice della poesia: l'accesso di sensibilità. L'opera d'arte viene allora a definirsi come momento di ineffabile responsabilità, come documento che nessuno ci ha obbligati a conoscere, ma che ci riguarda tutti e di cui in qualche modo possiamo chiedere conto al suo autore. Maurizio Pierfranceschi tutto questo lo sa molto bene, lo sente profondamente e lo verifica ogni giorno nel proprio lavoro, non dobbiamo quindi meravigliarci se, navigatore solitario da sempre, ha deciso negli ultimi tempi di acuire il più possibile lo sguardo per oltrepassare serenamente i modesti esercizi di grammatica sui quali tanti tornano oggi ad insistere. Il suo impegno, il suo modo di farsi carico della responsabilità succitata è ad evidenza quello di non mettere mai "al mondo" alcuna immagine la cui intensità e la cui tenuta d'insieme non siano pensate per resistere intatte alle tante turbolenze semiotiche che sono nell'aria, alle mille prevedibili strategie di programmata obsolescenza che qualcuno regolarmente si incarica di contrabbandare per vere e proprie tempeste. Da un punto di vista sintattico gli strumenti del nostro artista sono inappuntabili e fanno effettivamente pensare a quelli che egli stesso dichiara come propri referenti ideali: la secca narratività della scultura romanica e la misura informale di Burri. Tuttavia, forse proprio aiutati dalla suggestione che da tali referenti promana, non tardiamo ad accorgerci che l'isolamento di una dimensione sintattica, intesa come dato autonomo e strutturante, ai fini di un affondo diretto nel lavoro di Pierfranceschi non è in alcun modo una mossa proficua. Bilanciamenti, omologie, contrasti, spinte dinamiche e controspinte statiche, restano, infatti, sia sul piano cromatico che su quello della linea, dati e riscontri del tutto inerti fino a che non ci si sforza di riconsiderarli come sottomessi ad un superiore ideale: quello di una complementarietà inversa e assoluta tra le abissali vibrazioni del senso e la durezza ascetica del linguaggio. E di questo ideale le due grandi tele affrontate nella presente occasione sono in qualche modo, ciascuna a suo modo, il manifesto e la controprova. Se la didascalica banalità dell'idea non risultasse fuorviante le si potrebbe tranquillamente rinominare come "il giorno" e "la notte". Vale a dire gli emblemi aderenti e antitetici di uno stesso disagio, di una medesima impervia restituzione: il ritratto dell'artista inteso come soggetto che costruisce se stesso nel ridefinire il mondo per il tramite della pittura. Di giorno sostiene Pierfranceschi siamo assai più addormentati che di notte: gli strumenti del sopravvivere ci accecano col loro gioco d'incastri indifferente e perfetto, con una democrazia ingegneresca che devasta le incolte, innocenti riserve del sentimento e ci rovescia addosso a prezzi di usura una cornucopia di luccicanti sciocchezze. Di notte siamo molto più vicini a noi stessi, ma ancora una volta non siamo padroni della nostra persona, istinti, desideri e appetiti ci aleggiano intorno come cani liberi dalle loro catene, la natura preme dall'interno sui nostri occhi e sui moti acerbi del cuore, ma il mondo è lontano, sono lontane le cose che non ci appartengono e chiedono di esistere, è lontana la materia che vuole farsi pensiero per condurci ancora, quale guida devota e sicura, lungo i crinali del fare, dell'agire come suggello e garanzia del conoscere. Ma se conoscere è conoscersi e né il giorno né la notte ci sottopongono intera una idea di soggetto che sia umana ed aperta almeno quanto basta per comunicare col nostro io, quale mai potrà essere la strada per cominciare a scambiarsi davvero qualcosa con tutti gli altri? Con tutti coloro, s'intende, che non hanno certezze, ma non si sono ancora assuefatti all'amore del nulla? Maurizio Pierfranceschi questa strada non la conosce e non pretende davvero d'insegnarcela, sa però che la sua arte, come tutte le arti, sarà qualcosa di vivo e palpitante solo se ad essa strada continuerà a tendere con tutte le sue forze e sa anche che la forza dell'arte è la forza stessa del linguaggio. Ma su questo bisogna intendersi, sui mezzi e i poteri del linguaggio, sulle sue armi più efficaci e appuntite che non sono certo né quelle dell'astuzia, o del colpo ad effetto, né quelle dell'inventario progressivo e sinottico, dell'elenco infinito d'inutili elementari particelle. La sua ipotesi è un'altra e, come del resto non pochi giovani artisti cominciano oggi a comprendere, passa per la ricostituzione della soggettività, per l'interrogazione di quella sottile entità che collega tra loro le energie del sentire con le apparenze del reale. Certamente tutte le invenzioni della pittura, tutti i segni che mai un artista riuscirà a far emergere sulla superficie del quadro, come abbiamo già detto, devono essere considerati come intersezioni di funzioni possibili, come varianti logicamente plausibili di uno sterminato gioco di trasformazioni. Ciò che però nessuno sviluppo di una qualsivoglia fantastica matrice universale potrà mai produrre è l'atto stesso del riconoscimento, è l'assunzione del segno come obiettivo comunicazionale raggiunto, come valore umano ancora sconosciuto alla ricerca del quale si è però progressivamente assestata la propria mira. Bene, la poetica di Pierfranceschi è proprio tutta qui, tutta nel suo modo di assestare la mira, nel suo modo di interrogarsi in quanto soggetto. I1 suo metodo, se di metodo si può parlare, è quello del prosciugamento, della verifica di tutti i dati espressivi che un assorbimento dialettico e spesso - perché no? - anche traumatico delle immagini del quotidiano, mette a disposizione di una resa abile e convulsa, piena ed appassionata, educata persino attraverso disperate e paradossali sedute all'aperto. E naturalmente verifica vuol dire per il nostro artista rinuncia al superfluo, rinuncia anche alla più allettante ridondanza laddove un unico segno mostri di saper assorbire le vibrazioni di tutti gli altri. Ma questo metodo non sarebbe ancora nulla ed anzi batterebbe strade sicuramente già percorse se non avesse a sua volta un valore preparatorio, se non si facesse umile strumento di una reiterata rottura del telos all'interno del quale anche l'esercizio della pittura più secca ed ascetica è fatalmente imbrigliato. Dire però che questa rottura, questa epifania, si coagula sic et simpliciter nell'apparizione di immagini archetipe o simbologiche più o meno platealmente leggibili sarebbe una ingiusta semplificazione, un vero e proprio travisamento. In realtà lo scenario che la sapienza pittorica di Pierfranceschi appronta per queste apparizioni riassorbe e ricomprende le stesse nella esatta misura in cui queste producono la sua vitalità e l'autonomia dell'intera opera. Si veda ad esempio l'angelo della grande composizione in rosso che abbiamo proposto di rinominare come dedicata al giorno, esso, mi ha assicurato Pierfranceschi, e non ho motivo di non credergli, è letteralmente apparso solo quando il processo di riduzione e di verifica dei dati di partenza è giunto al suo culmine. La figura china che il nostro angelo raccoglie in un atto di piena fusione formale e che ritroviamo poi adagiata all'altro estremo della scarna ma vigorosissima scena è apparsa con esso e con esso condivide un’infinita apertura all'investimento di senso. Allo stesso modo nella composizione a registro notturno che al quadro in questione si contrappone sono state le stesse immagini emerse da un improvviso meditabondo risveglio (l'uccello, l'albero, la finestra, ecc.), a chiedere di essere liquefatte ed insieme parzialmente cancellate così come le ritroviamo sotto la pasta irreale e rappresa dei viola e dei blu. In nessuno dei due casi, infine, ha senso pensare ad un riferimento iconologico colto. Il messaggio passibile di essere ritradotto in aforismi verbali non va al di là del semplice ammonimento: impariamo a sognare di giorno e manteniamoci lucidi la notte, ma il messaggio inteso come avventura del sentimento alla rincorsa delle insondate risonanze che in un attimo solo ne hanno invaso il campo è sicuramente inesauribile. (1991)